Edda Melon



Marguerite Duras, la scrittura infinita

La domanda più radicale che si possa rivolgere a uno scrittore, a una scrittrice, la domanda che sta sotto a tutte le altre domande, è: "Perché?... Perché scrivere?". Noi lettori, noi lettrici - perché questo siamo prevalentemente, anche se abbiamo esperienza di scrittura, e abbiamo quindi bisogno della lettura come nutrimento - siamo nella stessa posizione del bambino, dell'infans, di fronte al cibo. Questo miracolo, da dove viene? Perché ci è dato? Più particolarmente se è una donna a fornircelo, questo nutrimento, questo latte, e se la domanda si singolarizza in "Perché scrive una donna?".

Ho messo a confronto le dichiarazioni di due scrittrici che amo, Marguerite Duras e Clarice Lispector. Di origine russa ucraina, di lingua brasiliana, morta a 57 anni nel 1977, Clarice scriveva:

Ci sono tre cose per le quali io sono nata e per le quali do la mia vita. Sono nata per amare gli altri, sono nata per scrivere, e sono nata per crescere i miei figli... Amare gli altri è l'unica salvezza individuale che conosco: nessuno sarà perduto se dà amore e riceve talvolta amore in cambio... Se non fossi madre, sarei sola al mondo... So che un giorno i miei figli apriranno le ali per il volo necessario, e io resterò sola. Quando resterò sola, starò semplicemente seguendo il destino di tutte le donne. Mi resterà sempre amare. Scrivere è qualcosa di estremamente forte ma che può tradirmi, abbandonarmi; un giorno potrò sentire di aver già scritto quella che è la mia parte, il mio ruolo a questo mondo, e non ho nessuna garanzia. Mentre amare io posso, fino all'ora della morte. Amare non finisce. È come se il mondo stesse in attesa di me. E io vado incontro a ciò che mi attende.

Analogamente e diversamente, scrive Marguerite Duras in La vie matérielle: "Un giorno, se vivrò fino a diventare molto vecchia, non scriverò più. Forse mi sembrerà irreale, impraticabile, e assurdo". Più oltre: "È impossibile restare senza nessun amore, anche se non dovessero restare altro che le parole, è una cosa che si vive sempre. La cosa peggiore è non amare, credo che non esista".

Occorre specificare che si intravede appena che cosa l'una e l'altra intenda con quelle parole: scrivere, amare... Al di là delle necessarie differenze, resta però un'analogia. Tornando allo scrivere, su cui ci stiamo interrogando, colpisce che per qualcuno sia un fatto necessario, dunque possibile. Per altri non è possibile, dunque forse non necessario.

Per quanto riguarda la necessità, e per quanto riguarda Duras, citerò due suoi passi. Il primo è tratto da L'amant: "Quindici anni e mezzo, voglio scrivere. L'ho già detto a mia madre: la cosa che voglio è questa, scrivere. La prima volta nessuna risposta. Poi lei domanda: scrivere cosa? Dico libri, romanzi. Lei dice duramente: dopo la laurea in matematica scriverai se vuoi, non mi riguarderà più. Lei è contraria...".

L'altro passo è da Les lieux de Marguerite Duras, un libro-conversazione con Michelle Porte. Alla domanda: "Lei ha detto che la ragione per cui fa dei film è per occupare il tempo. Direbbe la stessa cosa anche dei libri? Solo perché non ha la forza di stare senza far niente?", risponde:

Quando facevo dei libri, non pensavo che fosse per questo. Quando ho smesso di scrivere, per fare i film... ho smesso la cosa più importante che mi sia mai successa, cioè scrivere. Ma le ragioni che avevo all'origine per scrivere non le so più, forse era qualcosa di simile. Quel che mi stupisce è che non scrivano tutti. Ho un'ammirazione segreta per la gente che non scrive, che non fa film.

Sulla possibilità di scrivere, invece, cito il racconto di un sogno di Marguerite Duras: "Era il periodo che mettevamo in scena L'Eden Cinéma", una storia che riprendeva, ancora, l'infanzia, la madre, i fratelli.

Una notte ho sognato che entravo in una casa con delle verande, dei giardini, e si sentiva una musica. Dal luogo da dove veniva la musica, è uscita mia madre. Era già presa dalla morte, era già putrefatta, il volto pieno di buchi, già verdastro. Sorrideva leggermente. Mi ha detto: "Ero io che suonavo". "Ma come è possibile? Tu eri morta". E lei ha detto: "Te l'ho fatto credere per permetterti di scrivere tutto questo".

Più tardi, ne L'amant, Duras sottolineerà il fatto che solo la morte della madre, e un certo oblio, hanno fatto sì che la madre stessa abbia potuto diventare "scrittura corrente".

Ho citato sinora dei testi autobiografici (L'amant del 1984, frammenti, interviste) e da essi potrei continuare a trarre numerosi altri spunti. Ma per loro statuto, cioè per quell'insieme di regole e per gli orizzonti di aspettative che sostengono il genere dell'autobiografia, gli scritti di questo tipo sono fra i più menzogneri. Sono quelli che operano di più, se vogliamo, sul versante dell'io, di quel che uno crede di essere, di quell'immagine amabile di se stesso che fornisce a sé e agli altri. Meglio quindi rivolgersi alle opere di invenzione di Marguerite Duras, romanzi, film, teatro, e a quelle ultime opere per cui tale distinzione di genere non tiene neppure più, testi ibridi o polimorfi, e che vanno definiti ciascuno nella sua singolarità. In essi possiamo trovare indicazioni interessanti, anche se non molto numerose. Nella piccola folla delle eroine durassiane, solo due personaggi femminili hanno rapporto diretto con la scrittura, Aurélia Steiner e Emily L., nei testi omonimi, e forse anche la donna di Les yeux bleus cheveux noirs. A parte queste eccezioni, le donne durassiane sono casalinghe, oppure mogli alto-borghesi, o donne semplici, o quelle che hanno già fatto un passo dentro la follia o il crimine. Come Claire Lannes de L'amante anglaise, di cui Duras ha detto: "Quel che le piacerebbe fare è scrivere, ma non sa..." (e allora scrive lettere ai giornali). Cito un dialogo da India Song, il testo-teatro-film più complesso, che vede protagonista Anne-Marie Stretter, personaggio che riprende la figura di una donna reale incontrata da Marguerite Duras nell'infanzia e qui trasformata in moglie dell'ambasciatore francese in India. Siamo a un ricevimento ufficiale, Anne-Marie Stretter balla con un giovane attaché.

LEI: Lei scrive, credo.

LUI: Ho creduto di poter scrivere. Prima. Qualcuno glielo ha detto?

LEI: Sì, ma avrei probabilmente indovinato.

LUI: E Lei?

LEI: Non ho mai provato...

LUI: Trova che non ne valga la pena, non è vero?

LEI: Cioè... sì, in un certo senso....

Devo a questo punto ricordare che anche figure di uomini che scrivono compaiono nelle finzioni durassiane. All'interno di Le vice-consul (che può essere considerato la versione romanzo che precede India Song, testo-teatro-film), un quarto circa delle pagine è attribuito a un personaggio che scrive, un personaggio quindi che è dentro e fuori dalla storia, un narratore supplementare, un doppio del narratore principale. C'è quindi una divisione, una differenza accentuata tra una voce maschile (questo narratore secondario) e una voce femminile (il narratore principale, se attribuiamo questa voce, con una forzatura, alla stessa Duras). Scrivere, per uomini come questi, procede secondo i binari tradizionali: Peter Morgan, questo personaggio, si trova davanti al dolore dell'India, impersonato soprattutto da una mendicante calva e folle, e decide di costruire la presunta storia della mendicante dagli inizi, con ordine, per indagare, spiegare le cause. Per di più, scrivere è solo un dettaglio nella sua vita, e in ciò che scrive non c'è molto di personale. Diversamente, forse, scriverebbero i due personaggi maschili di Détruire dit-elle, impegnati in un complesso rapporto con due personaggi femminili, ma per l'appunto non scrivono, si mantengono sull'orlo di questo, en passe d'écriture.

Tutt'altra è la posta in gioco per Aurélia Steiner e per Emily L., tutt'altro il collegamento, in loro, fra scrivere e amare, anche se non il medesimo. Aurélia Steiner è il titolo di tre testi brevi e di due film brevi del 1979. È il nome di una ragazza di diciotto anni dall'identità narrativa estremamente incerta, riguardo alla quale ci sono variazioni sia da un testo all'altro, sia all'interno dello stesso testo. Banalizzando all'estremo, per tentare di darne un'idea, diremo che Aurélia Steiner tenta di ritrovare il suo passato particolarmente tragico: è nata in un campo di concentramento da genitori ebrei, la madre morta di parto nel suo stesso sangue, il padre impiccato lì accanto, che per tre giorni non riesce a morire. Questa è la scena primaria di Aurélia Steiner, l'unica in cui può immaginare congiunte le immagini dei genitori, in quello che lei chiama "il rettangolo della morte", che è il piazzale di adunata del campo, ma anche il rettangolo bianco dello schermo, o della pagina - visto che di scrittura si tratta. Due dei testi coincidono perfettamente con due lettere scritte da Aurélia. La prima inizia con: "Vi scrivo tutto il tempo, sempre questo, vedete..." e poco dopo: "Chi siete? Come raggiungervi?". E la seconda: "Sono in questa camera dove ogni giorno vi scrivo... Vi amo al di là delle mie forze. Non vi conosco". Il destinatario delle lettere si delinea in seguito come il padre morto, che Aurélia tenta di ritrovare nei marinai di passaggio, occhi blu capelli neri, mentre il posto del corpo della madre è forse tenuto dal mare (in francese: la mer, la mère), dapprima in tempesta, poi calmo, in cui Aurélia nuota, e parla.

Questa è la scrittura di Aurélia Steiner. Due lettere e, nel terzo pezzo, un breve racconto di un'altra possibile versione, la storia di un'altra Aurélia, a Parigi, a pochi anni, salvata da una vicina mentre i genitori vengono portati via dalla Gestapo. Il sigillo, la firma di Aurélia Steiner, chiude i tre testi in modo analogo: "Mi chiamo Aurélia Steiner (quindi, nell'ambiguità, anche: sono colei che si dà questo nome). Ho diciott'anni, scrivo". Che non è più: vi scrivo, o ti scrivo, come quando ci si rivolge ad un altro, ma: scrivo, scrivo e basta, forse invento, scrivo.

Sappiamo anche che all'origine di Aurélia Steiner c'è un lungo periodo di dolore nella vita dell'autrice, di solitudine e di impossibilità di scrivere. Con una lettera, indirizzata ad uno sconosciuto, un uomo visto una volta anni prima, poi sentito per telefono, - comunque una lettera non spedita - Duras ricomincia a scrivere e prende come oggetto e come forma della scrittura proprio delle lettere, le lettere di Aurélia. Anche in questo senso, vivere, amare, scrivere, si annodano sempre insieme.

Anche in Emily L., romanzo dell'87, c'è un particolare che lega la storia della scrittura e la scrittura del libro, come risulta leggendo La vie matérielle, scritto nello stesso periodo, dove si parla spesso di Emily L., che avrebbe dovuto essere già pubblicato se un gruppo di pagine non fosse andato perduto nella casa di Trouville. E proprio una pagina perduta, una poesia scomparsa, sta nel cuore della trama di Emily L. Un uomo e una donna in un pomeriggio d'estate, a Quillebeuf, al café de la Marine, parlano, si parlano. Ben presto un'altra donna e un altro uomo (il Captain) entrano nel campo visivo dei personaggi primari e nel loro discorso. Gli elementi di rassomiglianza delle due coppie di amanti si preciseranno in seguito: la differenza d'età, la vicinanza della morte a causa dello stato di malattia della donna, l'alcol, la scrittura. Nella ricostruzione di questa seconda storia, una serie di sorprese: la donna è stata in passato una scrittrice di poesie, ma un grande dolore e la misteriosa sparizione di una poesia l'hanno spinta a rinunciare alla scrittura. E quando la poesia viene raccontata, parafrasata, il lettore può ritrovarvi tutti gli elementi di una poesia di Emily Dickinson. Solo la poetessa americana, assente dal libro, porta legittimamente il nome di Emily. Non Emily L., la donna del Captain, il cui vero nome è ignorato, e che viene chiamata così da un uomo che si innamora di lei a causa della sua scrittura. Scrive Duras in La vie matérielle: "Gli uomini amano le donne che scrivono, anche se non lo dicono. Uno scrittore è la terra straniera". In questi tre personaggi di donne, gli elementi che si annodano diversamente sono proprio: vivere, scrivere, amare, che qui rivelano anche la loro sostanza comune.

  1. Emily Dickinson (qui non si racconta niente di lei ma basta evocarla), ha rinunciato all'amore di un simile, di un altro essere umano, per rivolgersi alla poesia, all'amore della lingua, e di un Altro assente, uomo o Dio
  2. Emily L. ha riconosciuto anche lei l'impossibile coesistenza di poesia e amore, perché l'uomo che ama è geloso della poesia, da cui si sente escluso. Lei fa la scelta opposta, rinuncia alla poesia per seguire il suo capitano in un viaggio per mare e dentro l'alcol, fino alla morte ormai prossima, che già le è scritta addosso.

  1. la terza donna invece, quella che dice io nel testo - e che è un calco riconoscibile di Marguerite Duras, così come il suo compagno è un calco riconoscibile di Yann Andréa, l'uomo più giovane che dal 1980 ha vissuto con Duras e che ha scritto un libro su di lei - tenta il più difficile: vivere, scrivere e amare, forse senza credere più in nessuna di queste tre cose, ma appunto per questo.

Ci sono in Emily L. lunghe conversazioni sulla scrittura. Anche lì, l'uomo giovane si oppone a che lei scriva la loro storia, nega che ci sia mai stata fra di loro una storia. Lei gli dice: "Se non puoi sopportarlo, puoi andartene quando vuoi". Ma lui resta. "Abbiamo continuato a parlare così. E poi hai detto: Quello che preferiamo, è scrivere dei libri ognuno sull'altro - e abbiamo riso".

Ma resta ancora da chiedersi, naturalmente, come scrivere. Comincerò, anche in questo caso, con qualche citazione da Duras. Nel 1974, in una conversazione con una femminista, Xavière Gauthier, nel volumetto Les parleuses, dice: "Prima... cercavo di fare armonioso... mi avevano detto che bisognava fare armonioso... Poi sono entrata nell'incoerenza". Nel 1977, in Les lieux de Marguerite Duras, dice:

Quando scrivo, quel che cerco di raggiungere è uno stato di ascolto estremamente intenso, ma come dall'esterno. Di solito le persone che scrivono dicono: quando uno scrive, si concentra, io direi: no, io quando scrivo ho la sensazione di essere nella totale deconcentrazione, non mi possiedo più, sono diventata une passoire [un colino, un colabrodo]. In questo modo, non posso spiegare le cose che scrivo, perché ci sono cose che non riconosco, in ciò che scrivo. Dunque mi arrivano proprio da altrove, quando scrivo non sono sola a scrivere.

Nel 1979-80, la lettera di cui parlavo prima, a un uomo sconosciuto, contiene queste parole:

ScriverLe, per me, è scrivere, e questo a causa di ciò che mi lega a Lei, questo amore così violento. Non posso, e Lei lo capisce, scrivere una storia coerente, portarla a termine, partire da un soggetto e svilupparlo in tutte le sue conseguenze, dalle prime alle ultime. Questo è finito. Non so come esprimerlo chiaramente. Posso solo dirLe che per tentare per esempio di esprimerlo, sono costretta a passare per un'apparente frammentazione dello scritto, dei tempi che lo strutturano, e soprattutto di disorientare costantemente la direzione delle sue componenti.

È questa la necessità che muove tutta la produzione ultima di Duras, scrittura e riflessione sulla scrittura, e che rende così simili i suoi testi scritti a quelli orali, come le interviste, o La vie matérielle. Fino all'ultima pagina di Emily L., che è una dichiarazione di poetica gridata dietro una porta chiusa:

Ti ho detto anche che bisognava scrivere senza correggere, non necessariamente alla svelta, in fretta e furia, no, ma secondo il proprio ritmo e il ritmo del momento che si attraversa, personalmente, in quella precisa contingenza, che bisognava buttar fuori la scrittura, maltrattarla quasi, sì, maltrattarla, non togliere niente della sua massa inutile, niente, lasciarla intera insieme al resto, non moderare niente, né velocità né lentezza, lasciare tutto allo stato di apparizione.

In questi due punti: incoerenza e frammentazione, oltre che in un terzo punto, la riscrittura, vedo la qualità infinita della scrittura durassiana. Per quanto riguarda l'incoerenza, l'idea centrale è l'approssimarsi della scrittura all'origine, l'origine della parola, dove appunto qualcosa, per passare nella parola, si perde. Quel vuoto incolmabile, sui cui bordi tuttavia la parola può muoversi cercando di ritrovarne la forma, perché è la forma di quel vuoto originario che costituisce l'originalità di un artista, ma anche l'originalità di ogni essere parlante. Per quanto riguarda la frammentazione dello scritto, questa ha a che fare anche con il gusto del nostro tempo, quel cambiamento di mentalità e di sensibilità di cui dicono da un lato la filosofia del pensiero debole e dall'altro le pratiche estetiche postmoderne. Certo, Duras ha iniziato a scrivere negli anni '40, con tutt'altro modo di sentire, di vedere e di lavorare, ma se ne è progressivamente e anche traumaticamente disancorata, come si è disancorata da tutto, anche dalla concezione tradizionale di identità, di soggetto e di discorso. Passaggi obbligati dunque, l'incoerenza, la frammentazione, ma attraversati in modo assolutamente personale, attivo, scandaloso. "Scandalo" è uno dei significanti che sul soggetto Duras esercitano la maggiore attrazione, rintracciabile nel corso di tutta la sua vita, per quanto ne sappiamo cioè per quanto ce ne dice. Scandalizzare con il suo comportamento sessuale (pensiamo a L'amant), con il suo comportamento politico (pensiamo ai racconti de La douleur), con la brutalità del linguaggio, con la rivelazione dell'alcolismo, della sua vita con Yann, del suo pessimismo radicale. Scandalizzare per il suo rapporto con la grammatica, con la sintassi, con l'immagine filmica.

Ancora vorrei soffermarmi su un altro aspetto, che non può non colpire nella lettura dei testi durassiani, intendo dire su quegli effetti di raddoppiamento più che di sdoppiamento, di duplicazione, a tutti i livelli del testo. Per esempio in Emily L.: due storie, due coppie, e allora il raddoppiamento occupa l'intera estensione del testo, tranne che per un terzo nucleo narrativo più enigmatico - quello dei coreani - su cui ora non è il caso di soffermarci, ma che comunque illustra ancora l'incoerenza, l'oscurità. In Aurélia Steiner: due lettere, due film, due testi più un terzo, in cui il nome proprio sta a indicare sia la figlia che la madre. Agatha, che mette in scena un amore incestuoso tra fratello e sorella, è il trionfo del raddoppiamento. Tutto è doppio, e tutto è raccontato due volte. In India Song, è evidente il parallelismo che si istituisce tra varie coppie di personaggi, coppie che si fanno e si disfanno continuamente: la mendicante indiana e Anne-Marie Stretter, Anne-Marie Stretter e il viceconsole, il viceconsole e la mendicante. Ma anche qui, a livello non più dei personaggi ma delle sequenze narrative, una corrispondenza tra la passione dei due amanti del Gange e il desiderio che lega le voci off, desiderio impossibile, che si brucia al racconto di quella passione.

Intorno a questa figura del raddoppiamento nei testi durassiani possiamo concentrare gli interrogativi più produttivi per noi. Si tratta, come sostiene per esempio Julia Kristeva nel suo saggio su Duras (in Soleil noir), di una soluzione melanconica? Del tentativo cioè di ripristinare l'unità perduta, col materno, con l'identico, senza intervallo? Oppure invece si tratta di sottolineare proprio la discontinuità, l'intervallo vuoto che il testo apre nel detto e risolve nel dire, cioè a due livelli diversi? E scavare questo intervallo, questa discontinuità, non tanto nel raddoppiamento, quanto nell'istituire spesso un triangolo tra chi dice, chi ascolta, e la storia, che così sempre si costituisce su un fondo di assenza, ed è sempre un ri-dire, un ri-scrivere, senza fine.

Ho fatto riferimento ai seguenti testi:

Marguerite Duras, Le vice-consul, Gallimard, Paris 1966; L'amante anglaise, Gallimard, Paris 1967; Détruire dit-elle, Minuit, Paris 1969; India Song, Gallimard, Paris 1973; L'Eden Cinéma, Mercure de France, Paris 1977; Le navire Night - Césarée - Les mains négatives - Aurélia Steiner - Aurélia Steiner - Aurélia Steiner, Mercure de France, Paris 1979; Agatha, Minuit, Paris 1981; L'amant, Minuit, Paris 1984; La douleur, P.O.L., Paris 1985; Les yeux bleus cheveux noirs, Minuit, Paris 1986; La vie matérielle, P.O.L., Paris 1987; Emily L., Minuit, Paris 1987.

Marguerite Duras - Xavière Gauthier, Les parleuses, Minuit, Paris 1974.

Marguerite Duras - Michelle Porte, Les lieux de Marguerite Duras, Gallimard, Paris 1977.

Clarice Lispector, brano tratto da Seleta de Clarice Lispector, seleção e texto-montagem do prof. Renato Cordeiro Goles, estudo e notas do prof. Amariles Guimarães Hill, José Olympio, Rio 1975.

Julia Kristeva, La maladie de la douleur: Duras, in Soleil noir. Dépression et mélancolie, Gallimard, Paris 1987.

Il saggio è tratto dal volume di Edda Melon, Salva con nome: Duras, Genet, Gautier, Cixous, Lispector, Artaud, Thomas, Trauben, Torino 2004.